Home
Foto
Indietro
     
 

Sinossi

Le Baccanti

 

“Innumeri le forme del divino, innumeri i miracoli operati dagli dei. nulla si compie di ciò che è atteso, un dio trova la via dell’inatteso.” (Euripides, Bacchae)


Le Baccanti, l’ennesima grande tragedia offertaci dal teatro greco, un ritorno alle origini del tragico con toni tutt’altro che razionalistici e socratici da parte di quell’ Euripide che Aristotele definì “il più tragico dei tragici”. Protagonista del dramma è l’iniziatore stesso dell’arte tragica, Dioniso, “il più terribile e il più dolce tra gli dei”, una divinità antinomica, incarnazione di tragiche contraddizioni: gioia e dolore, estasi e terrore, estrema ratio e follia, innocenza e crudeltà, ebbrezza vitale e annichilimento. Dioniso è, dunque, l’ambiguità indistinta, Caos e Cosmos, il disordine e l’armonia che non trovano equilibrio. Non a caso, l’opera è da sempre tragedia enigmatica e sconvolgente.

Il prologo comincia con Dioniso che si annuncia dicendo: “Eccomi a Tebe…”, la sua città. Ma non è “riconosciuto”, anzi il suo arrivo disorienta, genera tra i cittadini un furor che attanaglia gli animi: ciascuno è vittima di una follia travolgente determinata dall’estasi divina. Estasi significa “uscire fuori di sé”, non essere più se stessi: e, infatti, le donne di Tebe sono possedute dal dio ed è il caos, esse vanno via dalle loro case, abbandonano il focolare e i figli in fasce e si recano sul Citerone accecate da questa follia. Smarriscono la loro identità personale e nessuno dei loro corpi resta simile a sé, trascinato daIla dionisiaca passione. È la violenza del dionisiaco che si oppone all’aspetto gioioso dello stesso culto e anzi convive con esso. La violenza esplode estrema contro lo stesso tiranno tebano, il miscredente Penteo, reo di aver rifiutato il culto del dio straniero: egli finirà addirittura per perdere l’unità del suo corpo, lacerato e ridotto in brandelli dalle menadi invasate. Lo sparagmòs, lo smembramento, un corpo straziato, per di più dalle mani della madre, e per nulla somigliante a se stesso: è questa la punizione più infamante che Dioniso infligge a colui che non ha voluto riconoscerlo, che ha rifiutato ciò che più il dio bramava affermare, la sua identità.

E tuttavia anche Dioniso non si presenta identico a sé, nelle sembianze tradizionali, non si rende riconoscibile nell’immediato: è, sì, una divinità ma in veste di uomo, è uno straniero con l’incedere da donna, un dio travestito che si mostra mentre si cela, cui piacciono i trucchi e le metamorfosi, un dio che illude e mistifica, gioca con la realtà trasformandola in finzione. È, in definitiva, la personificazione dell’alter, del diverso, è ineffabile, indefinito, mobile: laddove si manifesta, ogni certezza perde solidità e si deteriora. Ancora, egli è soprattutto uno straniero sui generis, un barbaro che viene da lontano ma cittadino anch’egli, in quanto nativo di Tebe. Ritorna ancora la sua ambiguità, che è sua ma è anche nostra…
Sì, perché un’ambiguità di fondo si cela pure nelle nostre coscienze, ambiguità che ci spinge a indossare una maschera, come fa il dio, e a mostrarci come non siamo, a comportarci come non vogliamo. La società tutta oggi si muove lungo il binario dell’apparenza, dell’incoerenza dell’agire rispetto alla professata verità delle parole, sul binario infine di una doppia morale, della tolleranza apparente che si scontra col rifiuto dell’altro, di chi non è simile a noi, di chi non ha identità riconoscibile. Dioniso è lo “straniero” dentro di noi, è ciò che di enigmatico nasconde il nostro inconscio e il rifiuto di quello “straniero” è in qualche modo un rifiuto di noi stessi e di quell’anima in cui si annidano tutte le contraddizioni che non è possibile sciogliere. Le Baccanti è appunto la tragedia del riconoscimento, che non è mai riconoscimento tra un sé e l’altro assolutamente diverso da noi, è invece comprendere che l’altro ci appartiene in quanto è già in noi.

Ecco allora l’attualità di questa enigmatica e complessa tragedia: in essa Euripide ha saputo fornire una crudele rappresentazione della fragilità dell’uomo, delle debolezze e delle passioni estreme e violente che affollano la sua mente, tanto più che l’uomo del tempo di Euripide è lo stesso di oggi. La sua era un’epoca caratterizzata dal predominio degli affari e dell’interesse personale, dominata dall’egoismo e dall’individualismo che non risparmiava nessuna classe sociale, paralizzata dalla decadenza morale dello Stato e dalla disgregazione della società congiunta a quella dell’individuo. Era così allora, è esattamente così ora.

Caterina Astorino

 

 

 
Home
Foto
Indietro